Il concetto di Jihād nell'Islām - I due aspetti del jihād - il concetto di abrogato e abrogante

L'Islam politico e il mito del jihād. Il jihād spirituale e interiore, parte predominante della vita di un musulmano. La corretta interpretazione dei versetti sul jihād. Il ridimensionamento spirituale di un concetto, sebbene tradizionalmente islamico, ma che non fa nemmeno parte dei pilastri dell'Islām. I versetti contestati e il concetto di abrogato e abrogante.

17 marzo 2016 - autore: 'Alī M. Scalabrin
Ultimo aggiornamento: 23 maggio 2020

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Basmala
Nel nome di Dio Il sommamente Clemente, il sommamente Misericordioso

Salam
La pace, la Misericordia, e le benedizioni di Dio siano su di voi

Il concetto di jihād

La parola jihād nell'immaginario collettivo occidentale (ma non solo) richiama, quasi esclusivamente, alla cosiddetta "Guerra Santa", con un chiaro riferimento alle guerre, formalmente proclamate, in nome della religione, in particolare, alle Crociate, in quanto promulgate dalla Chiesa romana dell'epoca. Si da il caso non sia proprio così, andiamo ad approfondire.

Innazitutto, non è comunque possibile fare un parallelo stretto fra il concetto coranico di jihad con ciò che sono state le Crociate. Così come molte parole arabe vengono riassunte e decontestualizzate concludendo in diversi significati che fra di loro spesso risultato antitetici, sta all'esegesi moderna formulare una quanto più chiara e semplice interpretazione dello stesso termine, in una determinata sura, che trova spazio in quel determinato contesto storico e cronologico della rivelazione (Asbāb an-Nuzūl).

La parola jihād, come tutte le parole arabe deriva dalla sua radice triletterale. Nel Corano la cui radice triletterale (J.H.D - jīm hā dāl) compare 41 volte: 4 in forma di sostantivo jihād, 27 in forma di verbo jāhada, 1 volta come sostantivo juh'd, 5 volte come sostantivo verbale jahd e 4 volte come participio attivo mujāhidīn (coloro che preseguono il jihād, ovvero letteralmente, coloro che si impegnano).

Occore innazitutto distinguere ciò che all'epoca del Profeta poteva significare una parola così complessa come jihād e come potesse venir interpretata una volta pronunciata dal Messaggero alla comunità, da ciò che oggi può significare tale termine e da ciò scaturisce la distinzione fra tempo della divisione fra dār al-Islām (ovvero territorio sotto il dominio islamico) e dār al-harb (territori di guerra), le cui regole islamiche di convivenza e comportamentali cambiano. Questa distinzione oggi è del tutto superata a fronte di una una totale diffusione di fedeli musulmani in tutto il globo e della fine dell'era califfale delle conquiste. Inoltre bisogna anche tener presente che in arabo esistono altri termini per esprimere il significato di guerra (harb) o lotta (qitâl).

Detto ciò, di queste 41 volte, a parte alcuni casi particolari che potremmo tradurre con: (trovare il necessario, ricavarne il bisogno, la necessità, giuramenti solenni), solo in 19 occasioni potremmo interpretare il sostantivo, il verbo o il participio come sommariamente e vagamente legata al concetto di "combattere per Dio", ma il significato più generico ad ampio spettro è sempre quello di "sforzo volto al conseguimento di un obbiettivo e al compacimento Di Dio". Corrispondente al verbo inglese "engage" o "undertake". 

Di queste 19 circostanze ricaviamo alcuni significati:


    • In (Corano Al-Furqān 25,52) il senso di "lotta" o "combattimento", o "sforzo" (wajāhid'hum bihi jihādan) contro i miscredenti (l-kāfirīna), è non violento, in quanto, anche se non vi è scritto esplicitamente, la maggioranza dei commentatori vi legge un chiaro riferimento al senso verbale della predicazione.
    • In (Corano Al-'Ankabût 29,8 e Luqmân 31,15) il senso di jāhadāka deve intendersi come "sforzarsi contro qualcuno", "far pressione su qualcuno", "convincere qualcuno".
    • In (Corano At-Tawba 9,41, 9,88, Al-Hujurât 49,15 e As-Saff 61,11) il verbo assumere un carattere più militaresco "combattere con i propri beni (anche con armi leggere o pesanti, ma potrebbero anche essere ricchezze dell'aldilà) e con la propria persona sul sentiero (o sulla Via) di Dio" (jāhada fi sabīli-llāh). Da tener presente comunque, che il versetto At-Tawba 9,41 è stato abrogato dal versetto dal versetto versetto At-Tawba 9,91 impone prima di tutto il bene e l'indulgenza.
    • Infine, in (Corano At-Tawba 9,73 e At-Tahrîm 66,9) in senso "combattere/sforzarsi contro gli infedeli e contro coloro che insistono nel farci ritornare agli idoli ed essere duri contro coloro che hanno tradito i patti", conformemente a (Corano Al-'Anfâl 8,57-59).

    Da tener presente che la sûra At-Tawba 9 è molto particolare. La tradizione vuole che sia l'ultima rivelata, in particolare durante e in occasione della cosiddetta spedizione di Tabûk, che vide l'incursione preventiva (o difensiva) di alcuni musulmani allo scopo di neutralizzare le tribù del Nord della penisola arabica ostili al messaggio del Profeta e pronte a marciare su Mecca alla sua riconquista. Nel versetto At-Tawba 9,73, inoltre, la voce verbale jāhid (traducibile con "combattenti"), non è seguita la consueta formula fi sabīli-llāh (sulla Via di Dio), assumendo, quindi, il significato abbastanza generico di impegno o sforzo, che, nel caso specifico, assume il senso di resistere alle pressioni dei propri familiari verso il ritorno all'dorazione degli idoli, allo stesso modo (Corano Al-'Ankabût 29,8). Inoltre, sulla base del contenuto del versetto seguente, (Corano At-Tawba 9,74), la durezza con cui si rende necessario rivolgersi agli arabi definiti come "ipocriti" (munāfiqūn),è dovuta alla radicata resilienza che molti di loro avevano

    Canonicamente parlando, si può dire che nella tradizione islamica esistono due tipi di jihād: il jihād al-ākbar (grande jihād o jihād superiore), che è la lotta contro il male e le passioni dell'Io, che sono dentro di noi al fine del raggiungimento della purificazione spirituale e della compiacenza dell'Altissimo. Poi c’è il jihād as-asghar, (ovvero piccolo jihād o jihād inferiore), che è la lotta per la preservazione dell’Islām e la sua lecita diffusione, in alcuni casi, fino allo sforzo militare. Questa esplicita distinzione, assolutamente assente nel Testo coranico, fa riferimento essenzialmente ad un hadīth della Sunna riportato dall'imām Bayhaqī e da al-Khatīb al-Baghdādī, benché il suo isnād (la catena di tradizioni che può ricondurre sino alle parole di Mohammad) sia classificato come "debole".

    Il carattere bellico o comunque militare del piccolo jihād viene moderatamente attenuato e rivisto in chiave moderna da molti intellettuali musulmani (e non), valorizzando maggiormente il jihād superiore, come atto di autopurificazione contro il male che si trova in ogni uomo, quale unico jihād attuabile oggi.

    Il jihād, infatti, è per lo maggior parte un jihād, ovvero un impegno, uno sforzo, una lotta interiore e spirituale verso il distacco mentale dalle futilità e superificialità dela vita, verso il raggiungimento del compiacimento dell'Altissimo nel seguire il Suo Messaggio, il jihād non è altro che uno sforzo spirituale del singolo individuo per migliorare sé stesso, inteso in senso spirituale ma anche intellettuale, per mezzo dello studio e alla comprensione del Corano e della Sunna.

    Oltre al fatto che il jihād è anche uno sforzo e un impegno fisico e mentale per affrontare la quotidianità degli eventi che ci circondano. Ogni giorno è un jihād, anche solo accompagnare i figli a scuola, fare da mangiare, lavare, pulirsi, lavorare, prendersi cura dei genitori anziani, come il profeta ordinò di fare a un giovane, invece di unirsi a una campagna militare (narrato da Bukhari, Muslim, Abu Dawud al-Sijistani, al-Tirmidhī e al-Nasā'ī).

    Ogni giorno è inevitabilmente impegno e questo impegno, se fatto con sana intenzione (niyya), rispettando i fondamenti della religione, è pienamente conforme al significato coranico di jihād.

    JihadIl jihād coranico, quindi, non è certamente solo spirituale, esiste un jihād di combattimento, (impropriamente chiamato "offensivo"), certo, ma non deve essere inteso mai in senso generalizzato e rappresenta, oggi, più che altro una resistenza, una lotta contro l'oppressione, più che una guerra volontaria. Potrebbe esser paragonato al servizio militare in difesa del territorio o in missione, oppure piuò esser inteso nei termini di difesa personale, come l'apprendimento di una disciplina di arte marziale, ad esempio. Inoltre, quantitativamente parlando il cosiddetto jihād minore (ovvero quello della lotta attiva) rappresenta decisamente una piccolissima porzione dei molteplici e profondi significati coranici di tale termine.

    Alcuni commentatori pongono a sostegno di un jihād armato generalizzato nel senso di harb, (guerra) o qitâl, (lotta), tutta una serie di vesetti, come ad esempio: (Corano medinese Al-Mumtahana 60,1-2), a favore di una lotta (anche fisica) contro la miscredenza:



"...Oh credenti, non prendetevi per alleati il Mio nemico e il vostro, dimostrando loro amicizia, mentre essi non hanno creduto alla verità che vi è giunta e hanno scacciato l'Inviato e voi stessi, solo perché credete in Allah vostro Signore. Se siete usciti
[kharajtum] in combattimento [jihādan - nella lotta] per la Mia causa [sabīlī - la Mia Via], bramando il Mio compiacimento, pensate di poter mantenere segreta la vostra relazione con loro, mentre Io conosco meglio [di chiunque altro] quel che celate e quel che palesate? Chi di voi agisse in questo modo si allontanerebbe dalla retta via.
Se vi incontrano in qualche luogo, saranno vostri nemici, vi aggrediranno con le loro mani e le loro lingue e si augureranno che diveniate miscredenti..."
(Corano medinese Al-Mumtahana 60,1-2 trad. Hamza Piccardo)

Inutile dire che l'esegesi semplicistica di questi versetti che vuole far emergere il jihād fisico e armato generalizzato è del tutto fuori luogo, assai priva di contestualizzazione. Il versetto 60,1 rappresenta, infatti, una delle sole 4 volte, in tutto il Corano, in cui viene citato il jihād come sostantivo.

Prima di tutto, questa sura (Corano Al-Mumtahana 60) venne rivelata dopo che Mohammad e la sua comunità partirono per conquistare Mecca e uno di loro, di nome Hatib bin Abi Balta‘ah, li tradì, avvisando i meccani dell'imminente attacco, poiché aveva parenti a Mecca. Hatib era un veterano della battaglia di Badr, per cui Mohammad da subito rifiutò la richiesta di 'Umar di ucciderlo, anche se egli venne aspramente rimproverato per aver preso, come suoi amici, i nemici di Allah (Corano Al-Mumtahana 60,1) e che, per lui, non sarà possibile l'intercessione dei i suoi parenti nel Giorno del Giudizio (Corano Al-Mumtahana 60,3). Questo rappresenta un monito ai musulmani in generale, nel fare come ha fatto il profeta Abramo rigettando il credo pagano dei suoi parenti (Corano Al-Mumtahana 60,4). Anche qui, non si tratta necessariamente di combattimento militare di una lotta, un impegno sulla Via di Allah.

Qitāl e Harb non sono jihād - Regole di condotta nei conflitti

Vi sono altri versetti che esortano a combattere, ma non si parla di jihād, bensì di qitāl, ovvero combattimento e Harb (guerra), che di per sé non ha nulla a che fare con la religione, ma si inserisce nel contesto storico e politico della penisola arabica ai tempi del Profeta e ne fissa le regole.

La tradizione islamica più antica, inoltre, ricorda che il conflitto può avvenire soltanto come risposta a un attacco grave, come ad esempio una invasione che comporta la cacciata dei musulmani dalle proprie terre e proibisce espressamente di attaccare donne, bambini, anziani ed edifici civili nel corso di una campagna militare. I prigionieri devono essere trattati con onore e rispetto, non possono essere né schiavizzati, né forzati a convertirsi e devono essere rilasciati al termine del conflitto.

Vietato tagliare alberi, inquinare le acque, usare il fuoco come arma contro le genti.

Anche la spartizione del bottino ha regole severe.

I musulmani devono, inoltre, accettare la pace o la tregua quando il nemico la propone. Divieti e regole queste che valgono sempre, quale norma di condotta islamica, originata dai tempi del Profeta, nelle incursioni e nelle battaglie.

Inoltre, (Corano medinese Ash-Shûrâ 42,39), specifica espressamente che il combattimento (qitāl), (non il jihād), è destinato esclusivamente a "coloro che si difendono quando sono vittime dell'ingiustizia". Solamente  l'autodifesa (nel più ampio senso dell'espressione) rende la guerra lecita per i musulmani.


"...Combattete (waqātilū) per la causa di Allah (fi sabīli l-lahi) contro coloro che vi combattono (yuqātilūnakum), ma senza eccessi (taʿtadū), ché Allāh non ama coloro che eccedono l-muʿ'tadīna)..." (Corano medinese al-Baqara 2,190)

Il termine taʿtadū (eccessi) deriva dalla radice (' d w) che dà origine a tutta una serie di significati legati ai concetti di trasgredire, eccedere, inimicizia, nemico, ostilità, estremismo. La guerra, quindi, se inevitabile, non deve essere condotta con efferatezza, ingiustizia, né crudeltà. Questo esclude, a priori, anche l'estremismo, il radicalismo.


"...Vi è stato ordinato (o prescritto - kutiba) di combattere (l-qitālu), anche se non lo gradite . Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene (khayrun) per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete..."
(Corano medinese al-Baqara 2,216)

Mentre è proprio la Sunna che conferma in un hadith, l'illiceità delle operazioni suicide :

«Chiunque deliberatamente si getti da una montagna uccidendosi, starà nel Fuoco (nell'Inferno islamico), eternamente cascandovi dentro e rimanendovi in perpetuo; e chiunque beva veleno per uccidersi lo porterà con sé e lo berrà nel Fuoco, dove rimarrà per sempre; e chiunque si uccida col ferro porterà con sé quell'arma e con essa si pugnalerà l'addome nel Fuoco dove rimarrà in eterno» (Sunna - Bukharī (7:670))

Versetti messi in discussione

Tra i versetti maggioramente messi in discussione troviamo i seguenti:



"...Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell'omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti.
Se però cessano, allora Allah è perdonatore, misericordioso..."

(Corano medinese al-Baqara 2,191-192)


"..Combattete coloro che non credono in Allah e nell'Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo (jizya), e siano soggiogati..."
(Corano medinese At-Tawba 9,29 trad. Hamza Piccardo)

Per quanto riguarda quest'ultimo versetto (9,29), tratto dalla sura At-Tawba, (probabilmente la penultima sura rivelata e l'unica sura priva della basmala iniziale), la sua esegesi non è così semplice come si possa ritenere. Le frequenti interruzioni narrative, almeno fino al versetto 37, hanno fatto pensare alcuni studiosi che questa sura non sia altro che la fusione di due proclami del profeta Muhammad.

(At-Tawba 9,29) è  il versetto più comunemente conosciuto come la prova dell'ordine di muovere guerra contro una parte di tribù ebree e cristiane e sottometterle o con la conversione o con lo status di dhimmi (individui protetti, ma soggetti a pagamento di una tassa pro-capite, la jizya, quale tributo di capitolazione). La questione, però deve esser ben contesualizzata e non può esser vista in senso generalistico.

Sulla base della teoria dell'abrogazione, di cui vedremo in seguito, questo versetto avrebbe abrogato  alcuni precedenti rivelazioni, come ad esempio (al-Baqara 2,62); (Al-Mā'ida 5,69  e 82), dai toni decisamente più morbidi nei confronti delle minoranze di altre fedi, a discapita di una dura presa di posizione enunciata da tale versetto. In realtà, non è così.

Siamo circa nel nono anno dell'Egira (630 d.C.) Muhammad si preparava per la spedizione contro le tribù del Nord alleatesi con la guarnigione bizantina  dei Romani d'Oriente di Tabûk in Arabia Settentrionale a causa della loro violazione degli accordi stabiliti in passato.

Dobbiamo inoltre fare attenzione ad una cosa: le conseguenze notoriamente attribuite alla rivelazione  di questo versetto sono state alimentate e canalizzate, nel corso degli anni, dalla condotta politica e teologica dell'era califfale. In particolar modo a partire proprio dal cosidetto "Patto di 'Omar" (accordo stipulato tra i musulmani capitanati dal secondo califfo 'Umar ibn al-Khattab e una parte della  "Gente del Libro", segnatamente, cristiani ed ebrei, fra il 634 e il 644, probabilmente nel 637, pervenutoci comunque non prima del 1126 nella versione di Abu Bakr Muhammad ibn al-Walid al-Tartushi).

Tale documento, sebbene lasci ancor oggi molti dubbi sulla sua autenticità, evidentemente dettava condizioni alquanto sfavorevoli alle minoranze religiose in un territorio ormai conquistato pienamente dai musulmani, tanto da considerarlo più come trattato di sottomissione, che come "patto". Ed è anche vero che circolano diverse versioni di questo documento, che differiscono sia nella struttura, nella lingua, che nelle sue stipulazioni.

Secondo questo trattato, i dhimmi, cioè ebrei e cristiani, in seguito alla sconfitta militare bizantina, nella piana dello Yarmuk, sulle alture del Golan, potevano praticare la loro fede nell'area di dominio islamico, ma non dovevano costruire nuoviluoghi di culto, né restaurare quelle distrutte e quelle esistenti non dovevano essere più alte delle moschee. I dhimmi, inoltre, non potevano andare a cavallo, portare armi, far propaganda per il loro credo tra i musulmani, né professare la loro religione in pubblico; inoltre dovevano differenziarsi per la loro lingua e i loro vestiti, oltre al pagamento della jizya, per garantire la propria sicurezza.

Tale "patto", pù recentemente, sarebbe stato applicato dai terroristi del sedicente Stato Islamico nei confronti delle minoranze cristiane di Raqqa, in Siria.

Per quanto riguarda il pagamento della jizya, donne bambini, schiavi, poveri e comunque chiunque si trovi in stato di indigenza erano comunque esenti dal pagamento del tributo.

Dal punto di vista puramente semantico, esiste comunque anche una traduzione sostanzialmente diversa di tale versetto (At-Tawba 9,29:

"...Combattete (qātilū), tra la gente del libro, coloro [Alladhīna] che non credono in Dio, [...]
Uno per uno (‘an yadin)..."

(Corano At-Tawba 9,29 - trad. I. Zilio-Grandi)

Il termine "yadin"  ha fatto discutere molto fra gli esegeti classici e moderni, deriva dal triletterale yā dāl yā, che indica sostanzialmente le mani o mettere la mani avanti, o porsi davanti. In molte traduzioni, questo termine non viene neanche tradotto, passando direttamente alla parte seguente finale:   "...siano essi soggiogati (umiliati - wahum sāghirūna)". Indubbiamente lo spostamento del pronome  Alladhīna determina un cambiamento notevole del senso del versetto.

La sura At-Tawba e il concetto di Abrogante e Abrogato

La sura At-Tawba, dal carattere prevalentemente militaresco, contiene numerose occasioni di approfondimento sugli aspetti di guerriglia che hanno caratterizzato l'epoca del Profeta. Apparentemente, se presi isolatamente dal contesto, questi versetti possono sembrare molto aggressivi e alquanto poco "religiosi", ma la contestualizzazione porta ad una comprensione dell'esegesi fatta di trattati stipulati fra le varie fazioni, di rispetto verso questi trattati, di provocazioni e di avvertimenti che hanno comportato lo sfociare in azioni belliche. Ma vediamoli nel dettaglio questi versetti.


"...Ecco, da parte di Allah e del Suo Messaggero, un proclama alle genti nel giorno del Pellegrinaggio: “Allah e il Suo Messaggero disconoscono i politeisti. Se vi pentite, sarà meglio per voi; se invece volgerete le spalle, sappiate che non potrete ridurre Allah all'impotenza. Annuncia (bashshir), a coloro che non credono, un doloroso castigo..."
(Corano At-Tawba 9,3 trad. Hamza Piccardo)

"...Fanno eccezione quei politeisti con i quali concludeste un patto*, che non lo violarono in nulla e non aiutarono nessuno contro di voi: rispettate il patto fino alla sua scadenza. Allah ama coloro che [Lo] temono..."
(Corano At-Tawba 9,4 trad. Hamza Piccardo)

In altre traduzioni del versetto 9,3, troviamo "Dio non è responsabile degli idolatri" declinando così gli obblighi implicati dalle alleanze precedentemente stipulate.  Questo comporta che i non musulmani vengono libertati da ogni obbligo cui fossero legati da trattati stipulati con i musulmani e tutti i trattati esistenti vengono ridotti a un periodo di quattro mesi (At-Tawba 9,2), oltre il quale:


"...Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l'orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro strada. Allah è perdonatore, misericordioso..."
(Corano At-Tawba 9,5)

Il versetto 9,5 è anche chiamato "versetto della spada" (ayat as-sayf) ed è preso a pretesto dagli jihadisti per giustificare la loro contro i politeisti. Tale versetto è assai controverso e molti ritengono che sia abrogato da: (Corano Muhammad 47,4):


"..Quando [in combattimento] incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati, poi legateli strettamente. In seguito liberateli graziosamente o in cambio di un riscatto, finché la guerra non abbia fine. Questo è [l'ordine di Allah]. Se Allah avesse voluto, li avrebbe sconfitti, ma ha voluto mettervi alla prova, gli uni contro gli altri. E farà sì che non vadano perdute le opere di coloro che saranno stati uccisi sulla via di Allah.."
(Corano medinese Muhammad 47,4)

In giurisprudenza islamica spesso si parla di "teoria dell’abrogazione del Corano", elaborata essenzialmente durante i primi secolo dell'Egira per risolvere durante i primi secoli dell’egira per risolvere alcune apparenti formulazioni  legislative derivate da versetti coranici. 

Non si tratta, però, di una ben definita teoria, in quanto, nel corso degli anni e nel corso dei vari studiosi che si sono succeduti, più  o meno legati alle varie fazioni politiche e alle situazioni storiche, tale teoria ha subito alcuni adattamenti e sopratutto è stata utilizzata tavolta impropriamente o, in taluni casi, è stata addirittura riconosciuta come blasfema e presa a pretesto per scopi politici al fine di generare rappresaglie.

Il problema, infatti, risiede nel fatto che l'ordine della redazione delle sure non è certo l'ordine cornologico e non vi sono particolari e chiare indicazioni che determinino l'esatta collocazione temporale di ogni singola sura e spesso anche di ogni singolo versetto la cui collocazione temporale può variare dal contesto di rivelazione della propria sura a cui appartiene. Ciò impone un'imponente lavoro di stesura cronologica dei versetti che si è susseguita nel corso delle varie esegesi nei secoli fino ad oggi.

Questa teoria inoltre, coinvolge anche il problema del ruolo e dell'importanza di ogni versetto abrogato che contrasta anche con il concetto di immutabilità dello stesso, questione già affrontata dai mu'taziliti sul finire del I sec. dell'Egira. 

L'interpretazione del versetto 2,106 e il concetto di Abrogante e Abrogato

Tutto parte fondamentalmente da questo versetto dalla sura al-Baqara, che è la sura del periodo medinese più lunga di tutto il Corano.


"..Non abroghiamo un versetto, né te lo facciamo dimenticare, senza dartene uno migliore o uguale. Non lo sai che Allah è Onnipotente?..." (Corano medinese al-Baqara 2,106)

Da questo versetto possiamo ben capire che il concetto di abrogazione è insita nel Corano stesso. Ciò non significa però che le modalità e le finalità dell'abrogazione divina corrispondano alla sua interpretazione e applicazione umana, ma è quindi Dio stesso che ci introduce a questa possibilità secondo cui Dio abroga alcuni versetti e li sostituisce con altri (non specifica quali) versetti migliori.

La conclusione logica: quanti e quali versetti sono passibili di applicazione dell'abrogazione e sopratutto, l'abrogazione divina è correttamente interpretata dalla natura umana? Da ciò nasce la famosa scienza coranica “dell’abrogante e dell’abrogato” (‘ilm al-nāsikh wa-l-mansūkh).

Esso non è certo un ramo della scienza coranica sul quale vi è ampio accordo fra i giuristi, infatti secondo alcuni si tratta di un numero assai ristretto di versetti, altri invece ne ammettono anche diverse centinaia. Inoltre, alcuni applicano in un modo, altri applicano la setssa abrograzione con finalità e modalità differenti. Inoltre, il numero dei versetti presuntamente abrogati è tenedenzialmente decrescente con il passare dei secoli. In pratica, nell'esegesi coranica, con il passare del tempo si è usato sempre meno lo strumento tecnico dell'abrogazione, riservandolo esclusivamente a quei casi in cui vi è una palese evidenza di conflittualità e incompatibilità fra le norme.

Lo strumento fondamentale per capire l'eventuale abrogazione di determinato versetto è come sempre basato sulle cosiddette “circostanze della rivelazione” (asbāb al-nuzūl) che rappresenta ancor oggi l'unico valido strumento ai fini dell'esegesi coranica. 

A questo proposito, anche l'interpretazione dello stesso versetto 2,106, non può essere esente dall'utilizzo degli studi sulle “circostanze della rivelazione", anche se ci si trova di fronte a tutta una serie di interpretazioni come quella secondo la quale ad essere abrogati non sarebbero i versetti del Corano, ma alcune leggi dei libri sacri anteriori, Torah e Vangelo, come il riposo del sabato o la direzione della preghiera dapprima verso il tramonto, poi verso Medina e poi verso Mecca. Questa interpretazione la si ritrova anche quale esegesi del suddetto versetto contenuta in un'enciclopedia indiana moderna: «se una legge, nella fattispecie la legge biblica, è cancellata, a Muhammad è data una legge migliore».

Cardine principale di questa interpretazione è sicuramente il concetto secondo cui la legge della Torah  sarebbe stata completamente annullata e sostituita da un legge migliore: ovvero la coranica. Potrebbe sicuramente rappresentare un'interpretazione un pò forzata e conservativa dei vincoli dell'ortodossia islamica molto legata alla tradizione letteralista, in particolare, nell'area indo-pakistana, il fatto è che non abbiamo una completa sicurezza interpretativa su questo versetto.

L'attenta analisi moderna di questo passo coranico ci rivela intanto che si sta parlando chiaramente di versetti più precisamente  chiamati āyāt, ovvero "segni" , infatti, "Non abrogheremo un versetto (āyatin), né te lo faremo dimenticare (nunsihā), senza sostituirlo con uno migliore (bikhayrin min'hā) o uguale (mithlihā - dalla radice similare o esemplare)....".

Nelle esegesi più tradizionaliste,  influenzate per lo più dai vari contesti politici e dagli interessi personali e egemonici, troviamo che spesso si utilizza la teoria dell'abrogazione per affermare che alcuni versetti medinesi più bellicosi avrebbero abrogato alcuni versetti meccani rivelati precedentemente che invitavamo alla pace fra le varie fazioni.  Ma è davvero corretto applicare la teoria dell'abrogazione in questo modo?

Il contesto storico di riferimento in cui si inserisce il versetto 2,106 è quello della cosiddetta spedizione militare di Tabūk, del 630, (la cui narrazione parte dal versetto (2,81)), in cui i musulmani raggiunsero pacificamente senza riscontrare ostilità, il confine siriano e si accamparono presso codesto villaggio, nella parte settentrionale della penisola arabica, occupando i possedimenti dei cristiani della tribù dei Banu Kalb, assoggettando il territorio secondo la consueta formula del pagamento della jizya in cambio di protezione. Nonostante i musulmani fossero a conoscenza, attraverso le parole dei Nabatei, di un piano ordito dell'imperatore bizantino Eraclio per contrastare l'avanzata islamica, la spedizione non incontrò alcuna resistenza e questo divenne motivo di discussione nel Corano.

L'analisi semantica moderna della retorica semitica suggerisce di vedere il contenuto del versetto 2,106 all'interno di una sequenza semantica centrale che va dal versetto 104 al 110, che a sua volta fa parte di una terna semantica che va dal versetto 87 al 121. Nella retorica semitica, le estremità e i centri delle unità testuali rivestono sempre un’importanza particolare, sulla base dello schema AB/x/B’A’, in questo caso, infatti, il primo gruppo di versetti viene simmetricamente ripreso, in modo riflesso,  nell'ultimo  che chiude così la terna. Al centro di solito, vi è il messaggio importante e spesso spiritualmente rilevante. 

Sulla base di questo schema, la prima terna (2,87-103) incentra il discorso, anche in tono lievemente ironico (2,94), sulla pretestuosa esclusività dell'elezione del popolo ebraico quale popolo scelto da Dio, considerando che non vi può essere alcuna pretestuosa elezione esclusiva per cui solamente agli ebrei sarebbe stato rivelato un Libro (2,90), senza contare anche il fatto che gli stessi ebrei si sono macchiati più volte di aver ucciso i profeti (2,91); tale discorso viene poi ripreso  a seguire nella terza terna semantica (2,111-121), ribandendo il concetto in un versetto  sull’onnipresenza divina, secondo cui "A Dio appartiene l’oriente e l’occidente, e ovunque vi volgiate ivi è il volto di Dio" (2,115).

Il Corano, quindi, respinge l’idea di un’elezione esclusiva da parte di Dio del proprio popolo e afferma vigorosamente la presenza e l’azione universale di Dio. Quindi, il riferimento, posto nella parte centrale di questa terna semantica, al concetto dell'abrogazione non può quindi redimersi dal far parte di uno stesso discorso rivolto espressamente agli ebrei e, in ogni caso, nei confronti di coloro che si ritengono esclusivamente "eletti" da Dio. Un discorso effettuato proprio in occasione della spedizione e dell'insediamento dei musulmani a Tabuk.

Il Corano stesso quindi, non farebbe altro che “correggere” (abrogando) alcuni passi della Bibbia, facendo emergere il senso autentico del messaggio divino, utilizzando lo strumento dell'abrogazione.

Oggi come oggi, tale versetto viene  sfruttato da alcuni per abrogare tutti i versetti tolleranti e aperti del Corano (generalmente quelli meccani), a vantaggio dei versetti più militanti ed esclusivisti,  mentre il versetto 2,106 mira proprio all’abrogazione di versetti biblici percepiti come esclusivisti, per sostituirli con altri, più universali. Ciò non elimina il problema della "bellicosità" di alcuni versetti medinesi che andrebbero sicuramente rivisti attentamente in una chiave interpretativa esclusivamente circostanziale e non universale. 

Chiudiamo, invece, con i dei versetti più belli del Corano che contrasta enormemente con le concezioni più intransigenti finora riportate.


«Chiunque uccida una persona – a meno che essa non stia per uccidere una persona o per creare disordine sulla Terra – sarà come se uccidesse l'intera umanità; e chiunque salvi una vita, sarà come se avrà salvato la vita di tutta l'umanità» (Corano Al-Mā'ida 5,32)

Fatwa del Consiglio superiore degli 'ulema del Regno del Marocco

Consiglio Superiore degli Ulema in MaroccoIn relazione al dilagarsi del fenomeno terroristico, il Regno del Marocco, portando avanti la sua chiara linea politica che poggia fermamente sul concetto di un "Islam moderato", come la stessa Costituzione afferma, ha dapprima fatto divieto assoluto di parlare pubblicamente di politica agli Imam e uomini impegnati attivamente nel settore religioso, con una legge apposita e successivamente a diramato una circolare del Ministero degli affari religiosi nella quale si riportava una Fatwa del Consiglio superiore degli Ulema sul concetto di jihād, destinata principalmente agli aʼimmah marocchini (e non solo marocchini) all'estero, e, per questo, diffusa attraverso la rete consolare, tramite il Ministero degli Affari Esteri. Questa ne è la traduzione integrale in italiano:

"In seguito agli attentati di Parigi che hanno la morte di molte persone innocenti con il pretesto del jihad nel nome di Dio, il Consiglio superiore degli Ulema desidera chiarire, con una Fatwa, ciò che realmente è il Jihad nell'Islam e cosa non lo è con le sue relazioni con il terrorismo, l'aggressione, il terrore e il massacro di anime innocenti, formalmente bandito dagli atti di religione islamica.

In questa Fatwa, il Consiglio superiore degli Ulema si basa, in proposito, sui versetti del Corano: "Non attaccare, Dio non ama coloro che attaccano" e "Chi uccide un uomo non colpevole di omicidio o di un crimine sulla terra, è come se avesse ucciso tutta l'umanità". Il Consiglio afferma, inoltre, che il legittimo Jihad è disponibile in diverse categorie, di cui le più importanti sono:

  • Jihād contro sé stessi, attraverso l'educazione, la purificazione dell'anima e la sua preparazione ad assumersi le responsabilità.
  • Jihād attraverso il pensiero per plasmare così la mente in modo da servire gli interessi dell'umanità.
  • Jihād attraverso la scrittura, attraverso la pubblicazione di lavoro utile, la preparazione di articoli illuminanti e contrastare le false accuse contro l'Islam e contro i musulmani.
  • Jihād attraverso il denaro, attraverso l'impegno rivolto alla distribuzione della ricchezza, con generosità e per il bene della comunità econtribuendo alla sviluppo socio-economico.
  • Jihad con le armi al solo scopo difensivo, nel momento in cui l'integrità della vita umana della comunità islamica e di coloro che stanno sotto la protezione dei musulmani, risulti compromessa. Ne è consentito, quindi, l'uso in casi di estrema necessità, quando si viene attaccati dai nemici che desiderino la pace e quando tutti i mezzi pacifici falliscono, spiega, così, il Consiglio Superiore degli Ulema.

Anche in questo caso, prosegue il Consiglio di Fatwa, la proclamazione del jihad rientra nella competenza esclusiva del Grand Imam, al quale l'Islam ha dato il diritto esclusivo di proclamare, a chiamare e organizzare. L'Islam non permette, di conseguenza, nessun individuo o gruppo di dichiarare jihad per conto proprio. E il Consiglio ricorda, a questo proposito, che gli Ulema musulmani hanno sempre tenuto a sottolineare questa prerogativa al fine di preservare la coesione e l'unità della Ummah.

È vero, quindi, che il termine jihād è usato nel Corano per definire principalmente gli sforzi non violenti per la diffusione dell’Islām e per indicare lo sforzo interiore spirituale (vedi i versetti 29,8, 31,15 e 47,31). La possibilità di interpretare il jihād attraverso l'utilizzo delle armi, in realtà, è stata sancito dalle azioni e dalle direttive chiare emanate dal Profeta in persona. o, secondo una interpretazione allargata, al massimo tale direttiva poteva esser emanata dai primi califfi.

Secondo la sharì'ah, quindi, il jihād può essere lanciato solo da una autorità legittimamente riconosciuta da tutti o la maggior parte dei musulmani.

 

Riferimenti bibliografici e links utili

 

 


 

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