L'Apostasia non è punibile: il Marocco rinnega la fatwa sulla pena capitale e permette di cambiare religione

Con una nuova interpretazione, il Consiglio superiore degli 'Ulemā del Regno del Marocco rinnega la precedente fatwa che imponeva la pena di morte in caso di apostasia e permette di cambiare religione, ma in campo giuridico non cambia nulla: l'apostasia, di per sé, non è un reato in Marocco, viene punito solo chi induce forzatamente e pubblicamente alla conversione e/o utitlizza istituti pubblici per tali fini.

06 febbraio 2017 - autore: Rachida Razzouk e 'Alī M. Scalabrin
Ultimo aggiornamento: 07 marzo 2017


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Dopo il recente divieto di commerciare Burqa, vesti afghane e veli integrali, dopo la riforma sui contenuti dei testi scolastici e di quelli di educazione islamica, dopo la stipula della Marrakech Declaration, (Carta per la salvaguardia e il rispetto dei diritti delle minoranze nei Paesi a maggioranza musulmana),  il Marocco continua la strada di apertura verso la modernità, attuando una profonda revisione interpretativa che si basa proprio sulle fonti classiche e proprio nel rispetto di quest'ultime, avviando un processo re-interpretativo di assoluta innovazione/revisione.

Un'innovazione che ufficialmente dagli stessi revisori è considerata islamicamente corretta e NON rappresenta assolutamente una bid'ah (termine storico e coranico negativo per indicare un'innovazione eterodossa che si discosta ereticamente dall'ortodossia islamica).

Ciò che risulta veramente innovativo non è tanto il contenuto di questa nuova fatwa, ma il fatto stesso che provenga da un'autorità religiosa ufficiale del Regno del Marocco, che, precedentemente, si era espressa a favore della pena capitale, anche contrariamente allo stesso codice giuridico marocchino che non ha mai previsto alcuna pena, né si può configuare reato per l'apostasia in Marocco.

Questa nuova fatwa conferma pienamente, anche da parte delle autorità religiose stesse, la linea riformistica/restauratrice dei fondamenti del credo islamico nel paese maghrebino, portata avanti dal sovrano.

Si tratta, infatti, di una forte presa di posizione che lancia dei forti segnali rispetto alle canoniche interpretazioni, verso un percorso a senso unico che si distingue dalla maggioranza degli altri paesi a maggioranza islamica. Questo conferma la vincente linea di riforme intrappresa già a partire dal 2004 con la riforma del Codice di famiglia (Moudawana), con il giovane sovrano appena salito al trono, per un paese uscito, non solo, praticamente indenne dai focolai di rivolta accesi sull'onda della primavera araba del 2011 e 2012, ma bensì ulteriormente rafforzato da un forte consenso popolare nei confronti del re e della monarchia stessa.

Garante e vigilante di tutto questo processo di riforma resta sempre il sovrano Mohammed VI, in qualità di Amīr al-Mū'minīn (Principe dei credenti - che rivendica una discendenza diretta dal Profeta) e presidente dello stesso Consiglio superiore degli 'Ulemā, sempre molto vicino alle riforme e alla corrente spirtuale dell'Islām, , sfruttando l'ufficialità della sua posizione per fare un balzo nella preparazione della coscienza culturale collettiva nazionale al fine di accettare il cambiamento, accoglierlo e desiderarlo in modo pacifico e volontario.

 

Il consiglio superiore degli 'Ulemā in Marocco, massima rappresentanza religiosa del Paese, in un formale comunicato, (che in realtà risale allo scorso 23 e 24 dicembre 2016), annuncia la volontà di rigettare e prendere le distanze dalla precedente fatwa (aprile 2012), secondo cui «tutti i marocchini colpevoli di apostasia [ridda] sarebbero punibili con la morte», inserita in un precedente libro pubblicato dallo stesso Consiglio nel 2012. Tale opinione giuridica aveva scatenato allora numerose polemiche e dibattiti, in un paese che, da Costituzione, si ispira alla ”religione musulmana moderata” (art.1 della Costituzione marocchina del 2011).

Sabīl Al-'Ulamā’ - “La via degli 'Ulemā”, o "degli Eruditi", così si intitola il nuovo libro del Consiglio ed è stato è stato distribuito a tutti gli studiosi presenti in occasione dell’ultima sessione dell’Istituto indetta a Rabat. Tale pubblicazione non ha però, ricevuto una dovuta diffusione mediatica.

Nell’Islām, sono sempre state sollevate numerose volte le questioni legate all’apostasia e alla sua interpretazione giuridico-religiosa in termini di eventuale pena (hadd ar-ridda). L'opinione e l'applicazione più comunemente diffusa nel contesto dei dotti e che, secondo loro, dovrebbe risultare conforme sia allo spirito dell’Onnipotente in chiave di Legislatore divino enunciato nel Sacro Libro, sia alla tradizione legata alla biografia del Profeta, rimane, fino ad oggi, quella di punire l’apostata (murtadd), con la pena di morte.

In pratica, nel mondo musulmano, oggi, vi sono 12 paesi che prevedono formalmente la pena capitale in caso di apostasia, (anche se in alcuni non viene più praticata, pur non essendo stata abolita): Afghanistan, Iran, Mauritania, Nigeria, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Somalia, Sudan, Sudan del Sud, Emirati Arabi Uniti e Yemen.  Il Marocco, già prima di questa fatwa, non ha mai previsto alcuna pena, né si configura reato alcuno per l'apostata, di per sé stessa.

Cosa dicono le fonti - la Sunna


La Sunna, ovvero la gigantesca raccolta di detti (Ahādīth) del Profeta, tramandati attraverso catene di trasmissione orale, rappresenta la seconda fonte del diritto islamico, in ordine di importanza. Essa non è di derivazione divina, al contrario del Corano, ma bensì frutto dell'elaborazione umana di abili sapienti raccoglitori (muhaddith). Nonostante le sue classificazioni, essa non è certo esente da eventuali deformazioni, distorsioni, deviazioni e manomissioni storiche per fini politici, egemonici o altro e non è riconosciuta univocamente e uniformemente dalle varie scuole islamiche.

La giustificazione formale dell'applicabilità della pena capitale per l'apostata nasce esclusivamente dall'interpretazione allargata di due Ahādīth, di cui uno di discutibile provenienza. Pur appartenendo a riconosciute e accreditate collane di Libri della Sunna, questi due detti sono entrambi Ahādīth al-Ahad, (ovvero detti la cui catena di trasmissione è formata da un unico trasmettitore - Khabar al-Wāhid).

Il primo hadīth: l'abbandono della propria religione: il fuoco o l'uccisione? Nulla di questo.

Il primo detto “Chiunque abiuri la sua religione, uccidetelo”. [Sahih Al-Bukhari Vol.9 Libro 84,57] è contenuto nella più famosa e più formalmente accreditata raccolta di detti del Profeta, ovvero i lIbri di Bukhārī, che fa parte della cosiddetta Sunna del Profeta. Tralasciando l'argomento dell'attendibilità di tale hadīth, pur essendo contenuto nella prestigiosa collana di Sahīh al-Bukhārī, scendendo nel suo contenuto e sopratutto, leggendo interamente il detto, si può capirne interamente il suo significato:

Seguendo lo schema tipico degli Ahādīth, il detto, narrato da 'Ikrimah Mawla Ibn 'Abbās, afferma che alcuni zanadiqa, (termine generico per indicare gli ateisti (e non solo), usato però per lo più in epoca califfale abasside), sarebbero stati portati da 'Alī ibn Abī Tālib, cugino  e genero del Profeta e lui li avrebbe bruciati. La notizia di questo evento raggiunse Ibn 'Abbās, il quale  avrebbe detto: "Se fossi stato io al suo posto, non li avrei bruciati, come invece proibì l'Apostolo di Allah, che intimava di non punire nessuno con la punizione di Allah (il fuoco), "piuttosto io li avrei uccisi",  sulla base, [continua il detto], della dichiarazione del Profeta: -Chiunque abiuri la sua religione, uccidetelo-".

Da qui, si capisce già che citare la sola parte finale del detto, a sostegno dell'applicabilità della pena di morte per l'apostasia, risulta alquanto fuoriviante e superficiale, invece analizzandolo nella sua completezza si può notare prima di tutto la specificità del contesto. Inoltre, ammesso che l'episodio sia realmente accaduto e accaduto secondo le modalità ivi descritte, l'hadīth parla di alcuni zanadiqa, (plurale di zindiq), quali sventurati protagonisti della storia descritta. Di per sé, con tale termine, non è escluso il fatto che si tratti di atei provenienti dal paganesimo o da altre religioni o, come si pensa nel mondo accademico, seguaci del manicheismo o zoroatriani. E' un termine alquanto generico, usato per lo più, in epoca abbasside, quindi ben dopo la vita del Profeta e non è del tutto collegabile con chi rinnega l'Islām.

Considerando anche che, il mondo sunnita del Califfato Omayyade riteneva che la figura di Ibn 'Abbās, pur avendo appoggiato il Califfato di 'Ali, fosse un pieno sostenitore della parte sunnita del mondo islamico alle origini dello scisma, ecco che si profila la possibilità di una contaminazione, manipolazione o distorsione postuma del detto, in chiave politica,  quasi a ribadire, dalla parte del mondo sunnita, (dove principalmente si è prevalentemente diffuso il detto), l'errore di 'Alī e quindi indirettamente anche dei suoi seguaci, rifacendosi alle parole del Profeta.

Fra l'altro, 'Ikrimah Mawla Ibn 'Abbās (m. 723), trasmettitore del detto, nato da famiglia berbera, era proprio uno schiavo di Abd Allāh ibn Abbās, che divenne poi un kharijita, (movimento politico/teologico, famoso nella storia per il suo radicalismo ideologico, nato all'epoca del quarto Califfo 'Alī ibn Abī Tālib). 'Ikrimah è ricordato da molti muhaddith per la sua scarsa credibilità e per la debolezza della catena di trasmissione da lui fornita.

Il secondo hadīth: il traditore in tempo di guerra

Il secondo hadīth ammetterebbe la possibilità della pena di morte per il “traditore del gruppo”, “khā'in li-l-jamā’aa”, ovvero per colui che ritornava (irtadda) tra le fila dei Quraysh, dopo la conversione e lo schiermaneto con i musulmani. Chi abbandona la religione (nello specifico l’Islam, si intende), tradisce il gruppo (non la ummah - il concetto è diverso, in quanto la Ummah intesa come comunità di fede musulmana in sé non esisteva ancora al periodo del Profeta, inoltre è un'accezione puramente di carattere religioso, non politico). Questo è il punto fermo su cui, finora, gli studiosi non hanno battuto ciglio, ma che questa fatwa mette in luce. Ciò equivarrebbe ad un importante tradimento per le leggi internazionali di carattere politico, non religioso.

Le cosiddette "guerre dell'apostasia" "Hurūb ar-Ridda", del VII sec., a partire dal Califfo Abū Bakr erano condotte con l'intento di mantenere unita la nuova comunità, contro ogni tipo di divisione interna ed esterna. Pertanto, precisa la fatwa del Consiglio supremo degli 'ulema del Marocco, che l’interpretazione più accurata e più coerente con la legislazione islamica e l’esempio del Profeta è che l’uccisione dell’apostata, citata nei passi della Sunna, riguardi essenzialmente il "traditore del gruppo", [inteso come gruppo politico e comunitario], ovvero colui che fuggendo dall’Islām, [inteso come uscita dalla comunità di Medina], mette in pericolo la Umma [comunità di fede islamica] rivelandone i segreti ai suoi nemici; ossia l’equivalente di tradimento nel diritto internazionale. Di conseguenza, le parole del Profeta “chi cambia religione, uccidetelo”, devono essere interpretate come riguardante colui che lascia la propria religione e abbandona il proprio popolo.

Altri Ahādīth: dalla vita per vita al "non mi siedo finché non li uccidi"

Ci sono anche altri Ahādīth, non citati nella fatwa del Consiglio, che parlano dell'apostasia come ad esempio [Sahih Al-Bukhari Vol.9 Libro 83,17], narrato da 'Abd Ar-Rahman ibn 'Amr al-Awza'i, (707–774), che citerebbe le parole del Profeta secondo cui il sangue di un musulmano, che adora l'unico Dio e riconosce il Suo Profeta, non potrebbe essere versato se non in tre casi: in Qisas per omicidio volontario, nel caso di una persona sposata che commette il rapporto sessuale illegale e nel caso di colui che ritorna dall'Islām (apostata) e lascia i musulmani.

Anche questo hadīth, chiamato anche hadīth al-nafs bi-l-nafs, (vita per vita) ha un unico trasmettitore, ovvero 'Abd Ar-Rahman Awza'i, fondatore di un maDhab, che si sviluppò anche nel Maghreb e in Andalusia, ma venne presto sostituito dal maDhab mālikī.

Lo studioso egiziano Ahmad Subhī Mansūr (m. 1949) ci fa presente che, con tutta probabilità, nell'arco della sua vita, Awza’i, divenuto giurista per i califfi Omayyadi, molto presto, elaborò vari Ahādīth, storpiando l'originario messaggio per compiacere coloro che detenevano il potere. Quando, nel 750, gli Abbassidi si impadronirono del potere, con Abū al-'Abbas al-Saffah e, entrando a Damasco, uccidesero tutti i dirigenti Omayyadi, Awza’i fu l’unico a uscirne miracolosamente indenne, secondo quanto riferito nei racconti dello storico Ibn Kathir, dal quale emerge la sua personalità opportunistica.

Tra l'altro, la pena di morte prevista da questo hadīth per l'adulterio, è in palese contraddizione con il testo coranico rivelato in (Corano An-Nūr 24,2), che prevederebbe esplicitamente, semmai una pena di cento frustate per l’adultero (sia uomo o donna che sia), ma mai la pena di morte.

Un altro hadīth, molto controverso e [Sahih Al-Bukhari Vol.9 Libro 89,271] narrato da Abū Mūsa 'Abd Allāh ibn Qays al-Ash'arī (600-672) che racconta di un uomo che aveva dapprima accettato e poi rigettato l'Islām per tornare al giudaismo, che di fronte al sahaba Mu'ādh ibn Jabal (602-640), questi avrebbe detto: "Non mi siederò a meno che non lo ucciderai [in quanto questo è] il verdetto di Allāh e del Suo Apostolo".

Inutile dire che se anche fosse vero il contenuto di tale affermazione, resta comunque il pensiero del singolo compagno del Profeta, il riferimento a quest'ultimo era spesso usato per rafforzare e dare importanza al proprio pensiero. A confermare ciò, nel detto manca proprio la sintassi che esprime il collegamento fra ciò che dice Mu'ādh e il rifimento diretto al Profeta. Non si può certo fondare una pena di morte su un hadith così debole.

Ahādīth, contrari alla pena di morte

Accanto a questi 2 + 2 Ahādīth, apparentemente a favore di una pena capitale per l'apostasia, ve ne sono molti altri contrari che promuovono, invece, la clemenza, la tolleranza, la magnanimità e la benevolenza attuata dalo stesso Muhammad nei confronti di coloro che rinnegavano l'Islām, una volta entrati.

Il ma'rifat As-Sunan wal Athar, Kitab Al-murtad ci riporta un episodio riportato dal giurista persiano shāfi'īta Al-Bayhaqi (994-1066) secondo cui il Profeta non avrebbe ucciso "alcune persone che hanno creduto, poi hanno commesso apostasia, per poi tornare di nuovo a credere".

La stessa cosa fece 'Umar ibn Khattab, secondo quanto raccontato da Anas ibn Malik nel Musnaf Abdur Razzaq 18083 con  "la gente di Bakr ibn Wail" che "uniti agli idolatri" e che se fossero stati sequestrati dalle armate del Califfo 'Umar avrebbe "presentato loro un cancello da cui uscire e da cui poi avrebbero potuto entrare di nuovo". Se avessero fatto così, 'Umar avrebbe accettati con sé, altrimenti, li avrebbe lasciati in prigione. Ma in ogni caso mai uccisi (e stiamo parlando in tempo di guerra). Oppure, "lasciarli andare", come espresso nel Musnaf Abdur Razzaq 18102, restituendo a loro anche la jizīah.

Nella Sunna An-Nasa'i (829-915) 4069, che fa parte della canonica collezione di Ahādīth (Kutub as-Sittah), Ibn 'Abbas ci riporta l'episodio relativo alla sorte di un certo Abdullah ibn Saad ibn Abi Sarh che ricevette la grazia e la protezione del Messaggero di Allah, su intercessione di 'Umar al-Khattab, a seguito della sua unione con i miscredenti. L'episodio è ricordato anche in Sunna Abu Dawud 4358.

Ci sono, inoltre, alcuni Ahādīth che specificano espressamente che, in tempo di guerra, l'apostata donna non deve essere uccisa (Musnaf Ibn Abi Shayba 32083), per il solo fatto di essere donna.

 

Cosa dicono le fonti - Il Corano


D'altra parte, il Corano, quale prima e principale fonte del diritto islamico, nonché di origine divina, per il credente,  garantisce all’umanità la libertà di scegliere se credere o meno e non ammette espresamente alcuna forma di costrizione in campo religioso. In ambito coranico, né il Profeta, né tantomeno i credenti possono giudicare la fede altrui.

Il Corano, stesso, infatti, parla per lo più, di apostasia mentale (o di fede interiore), in molti versi e non dispone mai, per essa, una punizione terrena, ma bensì lascia il destino della morte nella miscredenza, senza pena terrena, per coloro che rinnegano la propria fede, ribandendo tale fallimento in questa vita e nell’eternità dell’aldilà (Corano al-Baqara 2,217).

Ad ogni modo, il Corano è ricco di versetti che stridono fermamente contro coloro che vorrebbero la pena capitale in caso di apostasia dall'Islam. Sono versetti che rivelano i principi generali fondamentali del credo islamico e delinenao i controni della sharī'ah, della vera sharīiah, che non ha nulla a che fare con devianti imposizioni tribali strumentalmente definite tradizionalistiche. Uno fra tutti è sicuramente è la breve frase contenuta in al-Baqarah, 2,256 che è stata oggetto di numerosi studi islamistici.

"[...]......[...]"
“Non c’è (lā) costrizione (ik'rāha) nella fede (l-dīni)…[…]”
(Corano medinese al-Baqarah, 2,256)

Anche tradotto con "...Non c'è coercizione nella religione...", questo passo rivela la totale e più generalistica affermazione di libertà, rispetto e preservanza della professione di fede di chiunque e di qualunque fede essa sia. Secondo molti esegeti, tale versetto è sceso per tutelare la fede e la possibilità di particarla dei cristiani ed ebrei a Medina. Perfino il teologo Sayyid Qutb (m.1966), precursore ideologico di molti dei movimenti terroristici moderni, nel commentare questo versetto non può che confermare il precetto unequivocabile della libertà religiosa e della possibilità di fare proselitismo in tutta sicurezza.  Non si tratta semplicemente del divieto (nahy) della sua applicazione, ma di un divieto che ha la forma di una negazione di genere e imporre questa fede agli altri è vietato.

E' un versetto di estrema complessita esegetica e spesso ci si scontra sul tema prettamente coranico dell'abrogato e dell'abrogante (An-Nāsikh ghaīr kā'in nāsikhan illā mā nafā hukm al-mansūkh). Per uno studio approfondito del suo significato rimando alla lettura dell'estratto “NESSUNA COSTRIZIONE NELLA FEDE” (Q. II, 256). NOTE DI STORIA DELL’ESEGESIa cura del prof.ssa Ida Zilio-Grandi, tratto dal libro "SCRITTI IN ONORE DI BIANCAMARIA SCARCIA AMORETTI - Vol.3" a cura di Daniela Bredi - Leonardo Capezzone Wasim Dahmash - Lucia Rostagno - 2008, Dipartimento di Studi Orientali (Roma).

Sulla stessa linea è il versetto (Corano meccano Yūnus 10,99): "...Se il tuo Signore volesse, tutti coloro che sono sulla terra crederebbero. Sta a te costringerli (tuk'rihu) ad essere credenti?..." (anche tradotto come: “Obbligherai la gente per far sì che riconosca?”), che, usando la stessa un termine con la medesima radice usata nel versetto (2,256), afferma in modo retorico che non è certo compito di nessun uomo costringere un suo simile a professare una determinata fede. Con questo versetto si ribadisce il dovere fondamentale della tollerenza in materia religiosa.

Anche il versetto (Corano Al-Kahf 18,29) lascia ampio margine di tolleranza in termini di libertà religiosa affermando chiaramente che "creda chi vuole e chi vuole neghi".

Altri versetti non solo non fanno alcun allusione ad una possibile pena capitale per l'apostata, ma auspicano nel ravvedimento dell'apostata (Corano Al-'Imrān 3,72) e addirittura, in un versetto quasi misterioso, il Corano profetizza l'arrivo di uomini che saranno amati reciprocamente da coloro che rinnegano la propria religione, quale "favore che Allah dona a chi vuole" (Corano Al-Mā'ida 5,54), alludendo quasi ad una possibilità di riscatto per l'apostata. Mentre i versetti (Corano Al-'Imrān 3,90; An-Nahl 16,106; An-Nisā' 4,137 e Al-Kahf 18,29) affermano certamente che vi è un castigo per coloro che rinnegano l'Islām, ma, allo stesso modo, postulano fermamente che è competente solo Dio nel perdonare o meno e nel decretare e svolgere tale castigo. Inoltre, Egli "non li guiderà sulla retta via". In ogni caso, nessun versetto coranico prescrive espressamente una punizione terrena per l'apostasia.

Lo studioso egiziano Ahmad Subhī Mansūr (m. 1949), analizza indirettamente il concetto di apostasia partendo propriop dal termine hadd, comunemente inteso come "pena", al fine di evidenziare che in nessuno dei 14 punti in cui il termine è presente nel Sacro Libro, esso qualifica una punizione ('uqūba), contrariamente alla diffusa opinione scolastica secondo cui le espressioni hadd al-ridda - “pena dell’apostasia”, hadd al-zinā - pena dell’adulterio” e altre simili, indicherebbe di fatto una pena terrena.

Con la parola hadd, continua Mansūr, il Corano si riferisce genericamente alla legge di Dio (shar' Allāh) e che solo a partire dall’epoca abbaside (VIII secolo), la parola hadd iniziò a essere impiegata come sinonimo di "pena" e "utilizzata per sanzionare non solo reati esplicitamente menzionati nel Corano, come l’adulterio o il furto, ma anche reati per i quali il Libro Sacro dell’Islam non prevedeva alcuna punizione terrena, come appunto l’apostasia", che, invece, riserva esclusivamente a Dio il giudizio su chi abbandona l’Islām.

Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, docente di storia della cultura araba e di islamologia all’Université Saint-Joseph di Beirut e al Pontificio Istituto Orientale di Roma, fondatore del Centre de Recherche arabes Chrétiennes e presidente dell’International Association for Christian Arabic Studies, afferma chiaramente che "il reato di apostasia e la sua sanzione con la morte dell'apostata, che vengono presentati come fondati su una lunga tradizione nell'Islām, non hanno, in realtà, un fondamento islamicamente accettabile [..] né nel Corano, né nella Sunna. Neppure la storia dei primi anni dell'impero islamico autorizza una simile intepretazione".

Anche in ambito sciita la punizione nei confronti dell''apostata è intepretabile in termini politici, più che confessionali, già tempo fa, l'Ayatollah Hossein-Ali Montazeri (1922-2009), infatti, ha affermato che non è improbabile che la punizione sia stata prescritta dal Profeta Muhammad, agli albori dell'Islām, a causa delle cospirazioni politiche contro i musulmani, più che per motivi prettamente religiosi.

L'interpretazione della nuova fatwa: apostasia politica e contestualizzazione


Se da una parte vi sono ancor oggi sedicenti sapienti nel mondo islamico come lo Sheikh Mufti Zarwali Khan Sahib, un deobandi pakistano, che ritiene addirittura che negare la pena di morte per l'apostata, sia apostasia essa stessa, in quanto sarebbe "provata con certezza", è assai ben strutturata la posizione teologica del Consiglio superiore degli 'Ulema in Marocco e si pone in netto contrasto con il tradizionalismo di matrice salafita e wahabita.

Questa nuova fatwa ribalta completamente l’interpretazione canonica postulando che per coloro che lasciavano la neo-comunità musulmana, allora, non rimaneva che aggregarsi alla comunità dei politeisti, loro avversari, nel contesto bellico che perdurava in quei tempi. Indi per cui, l’apostasia, enunciata nei testi sarebbe, in realtà, di ordine politico, [sīāsīa] non mentale, né spirituale, ovvero soltanto laddove costituisca cioè un pericolo per la pubblica sicurezza, come in caso di sedizione violenta o di tradimento in contesti bellici. 

In sostanza, si è liberi di abbandonare l’Islam senza rischiare la morte. L’apostasia narrata nella Tradizione sarebbe perciò di natura puramente politica, non dottrinaria, non spirituale.

E' un'opinione giuridica che proviene da un Istituto giuridico islamico riconosciuto destinata a segnare una svolta nel mondo islamico a livello interpretativo, sebbene già nel diritto islamico [fiqh] in sé stesso, NON si può considerare l'aspostasia un reato punibile con la pena di morte.

Ricordando come tale posizione uffciale del Consiglio superiore degli Ulema sia fondata sulla Rivelazione e sull'orientamento dei Sapienti più antichi, Sheykh Badr Miftahi, noto predicatore islamico di dottrina malikita, ha osservato come ciò non contraddica affatto la giurisprudenza tradizionale, generalmente considerata rigida e univoca, bensì ne costituisca l'interpretazione più corretta e il più coerente adattamento all'epoca, alle circostanze e alle condizioni di vita delle società contemporanee.

Il consiglio, infatti, ha giustificato il rigetto della precedente fatwa affermando che vi sono testimonianze nella biografia del Profeta, come il patto di Hudaybiyya (628 d.C.), fra i musulmani guidati da Muhammad e la tribù meccana dei Quraysh, che inseriva, tra le sue clausole, il divieto di rivendicazione nei confronti di coloro che prima si convertono all’Islam e poi lo rinnegano tornando dagli stessi Quraysh, mentre, viene richiesto il rientro a Mecca per coloro che lasciano la loro tribù meccana, senza il permesso delle proprie famiglie, per convertirsi ed andare a Medina con i musulmani.

A sostegno di ciò viene anche citato un episodio, narrato negli Ahādīth, di un beduino che dapprima si converte all’Islam, poi lo rinnega, ma il Profeta non fa nulla contro di lui, potendo uscire da Medina incolume. Questo fatto è allegoricamente, descritto nei detti del Profeta, con la similitudine che lega la città di Medina, fulcro della neo-comunità islamica, al fuoco che espelle le impurità del ferro e lo fa brillare, rivelando che solo chi resta assieme alla comunità del Profeta a Medina può godere della brillante purezza d’animo che stempera la malvagità di coloro che non seguono la Via dell’Altissimo. "Medina è come il mantice, espelle la sua malvagità e fa risplendere il buono".

In definitiva, secondo il ministero degli Affari religiosi non c’è pena alcuna da poter applicare per l'apostasia se chi abbandona l’Islām lo fa senza minacciare l'unità della comunità.

"Non vi è costrizione nella fede, la quale tende alla libertà (hurriya)", si legge nella dichiarazione e tale "libertà è parte dell’essenza della religione". L'unico vincolo è rappresentato dal rispetto dell'unità della comunità che deve rimanere esente da cospirazioni. La Fatwa parla anche di capacità di confrontarsi con altre realtà e fedi e con "modelli di pensiero e di comportamento diversi dai propri", basandosi essenzialmente sulle priorità e sulle finalità superiori (maqāsid kubrā), applicando quindi una contestualizzazione ed una attualizzazione dei precetti islamici attraverso la ragione e gli strumenti oggi disponibili.

"La sharī'ah definisce tanto la libertà dell’individuo [congiuntamente alla sua] responsabilità personale, quanto la libertà della comunità e la sua responsabilità". Ogni scelta comporta una determinata responsabilità ed "il singolo individuo è chiamato a fare la sua scelta di cui non deve rendere conto, così come la comunità è chiamata a fare la sua scelta e deve difenderla".

Nel documento si legge ancora che la riflessione degli 'Ulema sul tema della libertà religiosa è tra le "chiavi più importanti per il rinnovamento e il successo della loro missione" di uomini che devono dare il giusto esempio religioso. Il Marocco rappresenta oggi un "modello in cui la religione mantiene il Comando dei credenti (imārat al-mu'minīn) nell’ambito di una libertà garantita dalla legge, e che mira a essere un modello globale incentrato sulla condotta dei membri della umma, attorniati dagli ulema, e non su una rappresentazione distorta e corrotta perché fondata sul presupposto della coercizione come strumento di riforma".

Ed è proprio dal Corano stesso che parte questa libertà religiosa e, a questo proposito, la fatwa del Consiglio superiore degli 'Ulema cita proprio alcuni versetti di fondamentale importanza, a cominciare proprio da (al-Baqarah, 2,256), che, citato nella sua interezza, rivela il ruolo dell'uomo nella fede, laddove egli riesca a distinguere il vero dal falso e la retta via dall’errore, "all’individuo o alla comunità resta la responsabilità di scegliere".

Questa è l'unica responsabilità di cui si deve far carico il fedele, perché "chi vuole creda, chi vuole respinga", afferma l'Altissimo in (Al-Kahf 18,29), dal momento che, senza che vi sia costrizione, né obbligo nella scelta, è già stata disposta comunque una ricompensa o un castigo e non solo l'uomo non ha alcun diritto di esercitare giustizia nei confronti di un apostata, ma non è nemmeno competente giuridicamente ad esercitare tale giustizia.

Questo è sancito da un altro importante versetto, citato nella fatwa, che definisce proprio il ruolo dell'Inviato di Allah, (ovvero il Profeta Muhammed) e tale ruolo deve essere da esempio, come vuole la Tradizione, all'umanità e, in particolare, alle istituzioni religiose, come gli 'Ulema stessi. In (Corano meccano Al-Ghāshiya 88,21-22), infatti, l'Altissimo rammenta al Suo Messaggero che egli deve fungere da "ammonitore" (mudhakirun - dalla radice dh/k/r che significa ricordare, rimembrare) ed esplica chiaramente cosa Egli non deve essere: un controllore, un sovrano, un'autorità: bi-muSaīTirin (che deriva dalla radice S/y/T/r), per questo, non il Profeta, (come d'altronde, ancor meno, l'umanità, dopo di Lui) non ha nessun potere per costringere chi non crede a farlo.

L'apostasia della prima storia dell'Islam, contenuta nei detti della Sunna era prettamente "di natura politica, non dottrinaria".  "Il nobile Corano si esprime riguardo all’apostasia dottrinaria in numerosi versetti e non dispone una pena terrena ma una punizione nell’aldilà" e si veda, a questo proposito, anche il versetto (Corano medinese al-Baqara 2,217) che nel caso di coloro che rinneghino il Messaggio del Profeta è previsto per loro un duro castigo nell'aldilà, dove "...saranno dannati al fuoco, dove rimarranno in eterno...", ma specifica anche una cosa molto importante ed ogni loro opera in terra sarà resa vana.

In campo giuridico, in Marocco, non cambia nulla


In effetti, l'ordinamento giuridico marocchino che si ispira (comunque e anche) alla versione malikita del diritto islamico (fiqh), già prima di questa fatwa, non prevedeva e prevede assolutamente alcuna pena, né costituisce alcun reato o danno il fatto di cambiare religione. L''apostasia non è assolutamente punita nel codice giuridico marocchino. Ciò che viene punito, sulla base dell'art. 220 del Codice penale del Regno del Marocco che prevede il carcere da 6 mesi a 3 anni e ammenda dai 200 ai 500 DHM, è la costrizione e/o l'impedimento di una o più persone, con violenze o minacce, di praticare una religione, o di partecipare all'esercizio del proprio culto, oltre all'ostentata propanganda al fine di "minare la fede di un musulmano". E' punibile chiunque, "utilizzi mezzi di seduzione al fine di scuotere la fede di un musulmano o alloo scopo di convertirlo ad un'altra religione, sia sfruttando la sua debolezza o i suoi bisogni, o utilizzi, per questi scopi, il sistema educativo, le istituzioni sanitarie, asili e orfanotrofi".

Fintanto che non si presentino le condizioni tali da ipotizzare un reato di induzione forzata alla conversione (il codice parla appunto anche di violenza o costrizione), tecnicamente non si è punibili. Non si può parlare formalmente (e non si poteva parlare neanche prima di questa fatwa che comunque non va a toccare il codice penale marocchino), di detenzione prevista per l'apostata, bensì di detenzione in caso di sedizione e induzione forzata all'apostasia.

E' punibile invece, sulla base dell'art. 222 del Codice penale marocchino, chi essendo notoriamente “conosciuto per la propria appartenenza alla religione musulmana”, rompe ostentatamente il digiuno di Ramadan in pubblico.

Il piano riformistico su cui si pone questa fatwa non è altro che il recupero di posizioni fondate sulla Rivelazione e sull'orientamento dei Sapienti più antichi, nonché sulla prassi di generazioni di giudici e giurisperiti, espressa in maniera adatta all'epoca, alle circostanze e alle condizioni di vita delle società contemporanee. Questo è la specificità marocchina del riformismo islamico.

 

Fonti e approfondimenti:


 

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